Referendum, il declino della democrazia partecipata

L’8 e 9 giugno si è celebrata, con esiti amaramente prevedibili, l’ennesima liturgia spenta della democrazia diretta. Cinque i quesiti sottoposti al corpo elettorale – quattro in materia di lavoro e uno sulla cittadinanza – ma a dispetto della vittoria del “Sì”, il quorum del 50% + 1 degli aventi diritto è rimasto lontano, attestandosi a un modesto 30,5%, rendendo inefficace l’intera consultazione.

Ancora una volta lo strumento referendario è stato fagocitato dal teatrino della politica. I partiti ne hanno fatto il proprio cavallo ideologico, trasformando il voto in un campo di battaglia tra appartenenze e tifoserie. Se votavi, eri di sinistra. Se non votavi, eri di destra. Un’assurdità che avrebbe ispirato nuovi versi a Giorgio Gaber, che già decenni fa raccontava l’inconsistenza delle ideologie quando diventano moda, abitudine o posizionamento.

La sinistra ha scelto di giocarsi tutto sull’onda dell’indignazione, ma senza una visione convincente e aggiornata, cadendo spesso in retoriche novecentesche. La destra, dal canto suo, ha preferito boicottare, suggerendo l’astensione come “protesta efficace”.

Eppure, il contenuto delle proposte – pur con limiti argomentativi da parte dei promotori – avrebbe meritato ben altro dibattito: si è preferito invece rifugiarsi nei riflessi pavloviani delle tifoserie, rinunciando a un confronto maturo. L’evocazione del referendum costituzionale del 2016 torna inevitabile: allora il “no” fu usato come clava contro un governo, oggi l’astensione è stata brandita come gesto di contrapposizione fine a sé stesso.

Il risultato è il logoramento del senso civico. Il cittadino medio – colui che non si riconosce nei tribalismi politici ma desidera partecipare consapevolmente – è sempre più disorientato, smarrito in un sistema che sostituisce la ragione pubblica con la propaganda. La democrazia non muore solo nei regimi, ma anche nel silenzio delle urne svuotate di significato. In questo, la nostra crisi non è solo istituzionale, ma profondamente culturale.

E io, personalmente, sto vivendo questa profonda crisi civica. 

Ma quel lunedì mattina, 9 giugno, orma priva di ogni entusiasmo, le mie due nonne – che non ci sono più – si sono fatte sentire. Una all’orecchio destro, una al sinistro. Mi hanno parlato con voce dolce ma ferma, quella delle donne di un tempo che, nate negli anni in cui non potevano votare, avevano ben chiaro il valore di un diritto conquistato. 

“Come mai? Proprio tu che partivi da Roma stringendo quel biglietto con fierezza per tornare a votare?” 

“Noi certi diritti li abbiamo conquistati anche per te. Vai di corsa alle urne!” 

Ed è bastato questo per risvegliarmi dal torpore dell’apatia e della disillusione. Alle 14:00 dell’ultimo giorno utile, ho fatto ciò che sentivo giusto: sono andata a votare. Poi, come un tempo, ho scritto un post. Un invito, senza bandiere, a partecipare. 

Perché sì, siamo quelle che si commuovono davanti al film “C’è ancora domani”, ma poi dimenticano che quel “domani” richiede impegno anche oggi. 

Un diritto è un diritto. Un lavoratore è un lavoratore. E la politica – tutta, maggioranza e opposizione – dovrebbe rimettere al centro il tema, non sé stessa. 

La verità è che stiamo perdendo tutti. Non per colpa degli altri. Ma per ciò che noi stessi non siamo più capaci di fare: scegliere, partecipare, credere.

Così, ancora una volta, ha trionfato il disinteresse e ha perso la cittadinanza attiva. E tra una vignetta satirica e un meme su chi ha “perso”, ci siamo dimenticati in massa che in realtà abbiamo perso noi. Tutti. Nessuno escluso.

Perché il non voto non è silenzio, è rinuncia. E quando si rinuncia alla voce, si lascia spazio al rumore. Rumore di slogan, di tifoserie, di sarcasmi vuoti. 

Bisognerebbe, come suggeriva Robin Williams ne L’Attimo Fuggente, salire sul banco, cambiare prospettiva, guardare le cose da un’altra angolazione. Ma quella è una rivoluzione culturale che richiede visione, coraggio, senso civico. 

E la verità è che noi italiani non siamo pronti. O forse, non vogliamo esserlo.