Se lo sport divide, abbiamo perso tutti: la lezione eterna di Scirea

Libera Scirpoli

C’è un filo rosso che attraversa i decenni, dalle curve incandescenti degli anni Ottanta alle cronache di oggi. Un filo che non lega la passione, ma la follia. Domenica 19 ottobre 2025 due episodi hanno risvegliato i peggiori incubi di chi ama davvero lo sport. A Fasano, dopo la partita contro la Fidelis Andria, la violenza ha preso il sopravvento: lanci di sassi, fumogeni, bombe carta, sputi al Giudice Sportivo, auto danneggiate, paura e feriti non gravi. In un altro scenario, a centinaia di chilometri di distanza, un sasso lanciato contro un pullman ha ucciso un uomo innocente, Raffaele Marianella, autista dei tifosi del Pistoia Basket di ritorno da Rieti. Un uomo che stava semplicemente lavorando, con dignità, per contribuire all’economia della propria famiglia.

Due episodi diversi, ma uguali nella loro assurdità. Perché nessuna rivalità sportiva può mai giustificare la morte, la paura, il disprezzo per la vita. Dello stesso avviso i dirigenti delle società che condannano con forza gli episodi accaduti.

Sono passati quarant’anni dall’Heysel, quella notte del 29 maggio 1985 in cui il calcio europeo perse la sua innocenza. Riecheggiano ancora le parole del grande Gaetano Scirea, capitano della Juventus, che in quel momento drammatico della storia del calcio prese il microfono dello stadio. 

Era la finale di Coppa dei Campioni a Bruxelles. Quella che doveva essere una serata di festa si trasformò in tragedia. Ma nel caos e nella paura, la voce di Scirea risuonò chiara e pacata: 

“Restate calmi per favore. Ci sono dei feriti, è successo qualcosa di grave, ma vi prego: non reagite, state tranquilli.” 

Parole semplici, ma cariche di umanità e responsabilità. Un gesto che ancora oggi rappresenta lo stile e la grandezza morale di un uomo che è rimasto nel cuore di tutti, ben oltre il campo di gioco. Trentanove tifosi morirono schiacciati contro una recinzione prima della finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool. Un’ecatombe che doveva cambiare tutto, segnare un punto di non ritorno. Invece, ogni volta che una pietra viene lanciata, ogni volta che un pullman viene assalito, quella tragedia torna a urlare che non abbiamo imparato abbastanza.

Negli anni Novanta fu la volta di un altro nome, tra tanti altri, scolpito nella memoria: Vincenzo Spagnolo, venticinque anni appena, ucciso a Genova nel gennaio del 1995 prima di Genoa–Milan. Anche lui, come tanti, era sceso in strada per seguire la sua squadra, per vivere una domenica di sport. Ma trovò la morte per mano di chi confonde il tifo con la guerra. Da allora sono passati trent’anni. Eppure la cronaca di oggi ci restituisce immagini che sembrano identiche a quelle di allora: stadi blindati, gesti volgari, famiglie lontane, odio che rimbalza da una tifoseria all’altra come una pallina impazzita.

E allora viene spontaneo chiedersi cosa non abbiamo capito, cosa non è cambiato. Forse non bastano le sanzioni, i daspo, le telecamere. Forse il problema è più profondo: è culturale, sociale, umano. Perché il calcio, il basket, qualunque sport, sono nati per unire, non per dividere. E quando diventano il contrario, qualcosa di noi, come comunità, si spezza.

Lo sport è una metafora di vita: ci insegna a rispettare le regole, ad accettare la sconfitta, a gioire insieme per una vittoria. È spirito di gruppo, inclusione, solidarietà. È la mano che rialza il compagno caduto, non il pugno che colpisce. È la voce del bambino che grida sugli spalti accanto al padre, non l’urlo di chi lancia una pietra dal buio.

Ricordare l’Heysel, Vincenzo Spagnolo, Raffaele Marianella, e tutti i ragazzi morti “di sport” non serve solo a fare memoria, ma a ricordare il confine tra ciò che è sport e ciò che non lo è. Quel confine è sottile, ma imprescindibile. E ogni volta che qualcuno lo oltrepassa, non è solo un individuo a perdere, ma un intero Paese, la sua idea di civiltà.

Dovremmo tornare a pensare alla partita come a una festa: fatta di colori, bandiere, famiglie, bambini, amicizia. Dovremmo ascoltare le parole di Gaetano Scirea “vi prego, non reagite, state tranquilli”. Dovremmo riappropriarci del senso più puro e semplice del gioco. Perché alla fine, vincere o perdere non conta quanto farlo insieme, con rispetto, con cuore. Solo così potremo dire di aver vinto davvero — non sul campo, ma nella vita.